Il sentiero dei battaglioni. Monito e ricordo delle "Penne Nere"
Tra i morti che dormono sulla collina di Spoon River ci sono "Molti Soldati". Sussurrano tutti insieme la loro storia: "L'idea ci sventolava davanti come una bandiera;/ il suono di una musica marziale;/ l'emozione di portare un fucile;/ onori nel mondo al nostro ritorno; fulgore di gloria, ira per i nemici;/ un sogno di dovere per il paese o per Dio./ Ma queste erano cose dentro a noi, ci splendevano innanzi,/ non erano il potere alle nostre spalle: l'onnipotente mano della Vita,/ simile al fuoco che dal centro della terra crea le montagne,/ o ad acque racchiuse che le corrodono". In questi versi di Edgard Lee Masters c'è tutta la beffarda illusione della guerra "bella anche se fa male". C'è tutta la rassegnazione di chi, numero tra numeri, soldato tra soldati, ha lasciato la propria vita, l'unica disponibile, là dove la "onnipotente mano della Vita" lo ha voluto condurre, e non oltre. Quei combattenti morti in mille battaglie riprendono il loro sommesso mormorio con una semplice domanda: "Vi ricordate...?".
Ebbene i "Many Soldiers" di Spoon River non pretendono di essere ricordati, vogliono invece poter condividere i loro ricordi, come se la vita breve che hanno vissuto non fosse stata obliata dai vivi, come se la memoria (quanti abusi per questa parola, sprecata con ogni ferro rugginoso, con ogni sasso consunto, con ogni malfermo proverbio di vecchio) non fosse un pensiero sempre più tenue e vago verso chi non c'è più, ma una chiacchierata non interrotta, un discorso di cui non perdere il filo. Gli alpini dormono non sui colli, ma sui monti. I nostri alpini, idealmente, sui nostri monti. Caduti, dispersi, tremila e più, che da un secolo, dalla fine della Grande Guerra e anche dopo, muoiono ancora un po' di più ogni ora, ogni giorno, ogni anno. Sapevano i loro compagni d'arme, quelli che erano tornati a casa, che per tentare di salvare gli amici alpini morti da una seconda morte serviva un segno. Un segno tra quelle montagne che le "Penne Nere" biellesi avevano salutato, tra il 24 Maggio 1915 e il 4 Novembre 1918, per andare a combattere su altre montagne.
Così è stato che, fondata la Sezione di Biella dell'Associazione Nazionale Alpini nella serata del 9 dicembre 1922, uno dei primi gesti del nuovo sodalizio fu il segnare un sentiero in quota, sulle cime delle Alpi del Biellese. A ogni vetta un battaglione, a ogni battaglione una lapide: dieci. Dieci tappe in alto, un sacrario tra le rocce e il cielo come nessun altro in Italia aveva e ha fatto. Una sorta di "parco della rimembranza" esteso quanto le nostre Alpi. Dieci monumenti di alpestre silenzio e solitudine cui ascendere per ascoltare il monito di una normalità (nessuno nasce guerriero: la vita è lotta, non guerra) distrutta dall'enormità, anzi dall'abnormità di quella "inutile strage". Dieci come i reparti alpini che durante la Prima Guerra Mondiale fecero leva su Biella e sul suo circondario. Il presidente Riccardo Delpiano e i suoi ex commilitoni volevano che salendo sulle montagne i biellesi vedessero i segni, sentissero le voci, facessero un po' di cammino con gli alpini sepolti chissà dove, ma adunati in spirito sotto le insegne dei rispettivi battaglioni.
Si doveva quindi ricostituire sulla chiostra biellese tutto il 4° Reggimento Alpini. Il primo battaglione fu il "Val d'Orco", il 15 luglio del 1923, sulla punta del Tovo. Domina Oropa e Biella, il Tovo, si protende quasi sulla conca e svetta un palmo più basso del Mucrone. Era quello il giorno del XII° Convegno Alpino della "Pietro Micca" e fu una festa di gente amante della montagna. Gli alpini di Delpiano iniziavano la loro opera di segnatura tra gli alpinisti della "Pero". Sui monti, sembrava dire quel connubio, si dovrebbe andare soltanto a pascolare o a scarpinare. La cronaca di quella giornata tramanda la presenza di un ragazzino, un Mach di Palmstein (nipote di colui che aveva portato il telefono a Biella nel 1885, o giù di lì, e figlio di un alpino caduto) che scoprì l'epigrafe, sulla quale era drappeggiato il Tricolore. Lo si riconosce, il piccolo Mach di Palmstein, nella fotografia d'occasione: porta il cappello alpino con la nappina scura e senza penna. Il copricapo gli va un po' troppo grande: è come la guerra, che non è mai a misura di nessuno, cupa e troppo grande per tutti. Il 1° agosto del 1926 il glorioso "Aosta" si attestava sul Bo. Fu l'ultimo dei battaglioni, il più amato, quello che costa quel che costa: Viva l'"Aosta"! Tre anni e rotti per dislocare tutto il 4° Alpini sulle dieci alture. Per prendere posizione difensiva e insuperabile sulle Alpi nostre, dal Mombarone di Graglia al Monte Barone di Coggiola, a presidio delle vette, a perenne monito e vigilanza di pace.
C'è in quella puntiforme installazione, che appare divisa, ma che forma un unico monumentale omaggio, anche un segno di distinzione cui gli alpini tengono: è come il mare per i marinai. I monumenti in città o in pianura vanno benissimo, ma la "casa" delle "Penne Nere" è dove l'aria è sottile, dove è più facile non perdere il filo del discorso. Il monumento ai Caduti (ovvero alla Vittoria) della Città di Biella, peraltro un alpino con tanto di mulo accanto, è stato ed è apprezzato dagli alpini, ma quel suo basamento di sienite della Balma "rappresenta" un monte, ma non "è" un monte. In effetti quando l'A.N.A. Biella si impegnò con se stessa (e con quelli che sarebbero potuti essere suoi soci, ma che non poterono iscriversi per colpa del destino avverso) a collocare lassù le dieci lapidi, l'idea di erigere un cospicuo simbolo mnemonico ai biellesi morti in guerra con le fattezze alpine non era più soltanto un'idea, ma già un progetto formato. Eppure le intenzioni di quei biellesi che avevano servito nei battaglioni del 4° Alpini erano diverse. Non volevano venir meno a un disegno ambizioso, degno di figli, fratelli e padri perduti.
Quando il 13 ottobre 1923 cadde il telo che celava l'opera di Pietro Canonica inserita nel verde contesto dei Giardini pubblici "Zumaglini", alla prima voce del Tovo rispondeva già la seconda, quella del Mucrone forte e chiara del Battaglione "Ivrea" (5 agosto). Il canto era cominciato e gli alpini, da sempre, apprezzano i cori. Domenica 18 novembre 1923 fu la volta dell'"Intra". La sua pietra doveva essere posata sul Rosso. Fu come ritrovarsi sui monti contesi agli austriaci, quando anche il tempo era inclemente e invece di una si aveva l'impressione gelida di dover combattere due guerre: una contro i nemici, l'altra contro il cielo. Scrissero i giornali di allora: "la cerimonia è divenuta ancor più solenne, perché la neve, che ormai colma le conche dell'anfiteatro delle nostre montagne, invitava ad un raccoglimento direi quasi mistico, per meglio eternare in noi la memoria di quei puri eroi che col loro sacrificio ci diedero l'Italia d'oggi libera e grande". Ci volle tutta la mattina per arrivare in cima. Le foto testimoniano che la salita non fu semplice, ma quella fatica valeva la pena.
Anche perché "il Comando del Battaglione Levanna, con delicato pensiero, inviò lassù una rappresentanza di Alpini, con fanfara al completo, comandati da un Ufficiale". Anche loro si vedono nelle quattro immagini scattate quel giorno, immagini doppiamente preziose, perché tra le poche (uniche?) che ritraggono da queste parti gli alpini del "Levanna". Il Battaglione "Levanna" i cui morti furono commemorati con la lapide della Colma del Mombarone (4 luglio 1926), fu il solo reparto alpino a stanziarsi nel Biellese. Fu accasermato al Piazzo tra il settembre del 1923 e la primavera del 1926, quando fu sciolto. Come si è scritto giusto un mese fa, il "Levanna" stava per diventare il "Biella", e sarebbe stato un grande evento, oltre che il dovuto riconoscimento per il sacrificio di tanti alpini biellesi. Ma il cambio di denominazione non avvenne. In ogni caso gli ultimi anni di vita del "Levanna", cioè quelli trascorsi al Piazzo, non sono molto documentati e perciò fa piuttosto effetto osservare sulla neve del Rosso quegli alpini musicisti. Questo come tanti altri dettagli (che dettagli non sono) si colgono sfogliando un vero gioiello, un piccolo album fotografico tutto incentrato sulle lapidi poste sulle nostre montagne in onore dei battaglioni alpini. E' un documento straordinario, con ogni probabilità un unicum, che l'Archivio Storico della Sezione di Biella d'A.N.A. conserva gelosamente.
Rievocare quelle immagini con il supporto delle testate locali dell'epoca induce a riflettere su come la vicinanza, quando non la partecipazione diretta, a una tragedia immane come è stata la Grande Guerra porti a una consapevolezza vera di certi valori, primi tra tutti quello della vita e quello della pace. Le lapidi, che da quasi un secolo segnano le cime delle Alpi biellesi, avevano anche la funzione di affermare proprio quei valori rimettendo con il tributo d'onore il debito che tutti avevano e abbiamo con quegli alpini. Ma i vivi, a differenza dei morti, hanno la memoria corta (ecco perché non bisogna eccedere nell'uso di un riferimento spesso labile come il ricordo personale) e dimenticano sempre troppo in fretta. Tuttavia oggi, dopo che un'altra guerra ha privato tanti della vita e l'Italia e le famiglie di quei tanti, percorrendo i sentieri che toccano quei cippi ideali si può forse provare a far sentire gli alpini del "Cervino", del "Pallanza", del "Val Baltea" e tutti gli altri del 4° Alpini, un po' meno esclusi e soli. Hanno dovuto interrompere, loro malgrado, quella sciocca e meravigliosa chiacchierata che è la vita e ancora adesso hanno voglia di parlarci delle cose futili e importantissime che rendevano speciali le loro esistenze. Sono i nostri "Molti Soldati" che dormono sui monti, morti anch'essi in un sogno di dovere per il paese o per Dio.