Marzo 1896: l’alpino Rossetti mutilato ad Abba Garima
[da "Eco di Biella" 7 marzo 2022, Danilo Craveia]
Alle falde di Abbà Garimà nel paese di Taitù di Fulvio Conti (uscito sul Bollettino Storico Vercellese del 2002) è il testo di riferimento che offre la cornice dei fatti pregressi e della situazione in cui si trovò il Biellese all’indomani della triste data del 1° marzo 1896. La battaglia di Adua o di Abba Garima si inquadra nel primo periodo del colonialismo italiano, avviato nel 1882 nel Corno d’Africa. Malgrado la sconfitta, la presenza biellese in quelle terre fu comunque significativa non solo a livello militare, ma anche in chiave infrastrutturale e civile. Impresari e imprenditori biellesi costruirono ferrovie, ponti e strade in quell’area e la colonia eritrea rappresentò un buon investimento per chi puntò sulle sue risorse e sul suo sviluppo. Meno propizio fu il tentativo di ampliare il dominio coloniale verso l’entroterra etiope dopo che il trattato di Uccialli del 1889 (tra Regno d’Italia e Impero d’Etiopia) era venuto meno. Tra il 1895 e il 1896 Menelik II fermò quel tentativo e il suo impero rimase precluso agli italiani per i successivi quarant’anni. La battaglia di Abba Garima rappresentò il battesimo del fuoco delle Truppe Alpine: dei poco meno di mille alpini impegnati per quella prima volta, solo meno del 10% riuscì a sopravvivere.
Alle 15,38 del 24 ottobre del 1896, l’alpino Rossetti scese dal treno a Biella. Ad attenderlo non c’era nessuno. Era arrivato in anticipo e attese chi doveva accoglierlo nel caffè della stazione. Aspettava da tanto tempo quel momento e, forse, il fatto di non essere stato ricevuto in pompa magna non gli dispiaceva. La sua tranquillità durò comunque pochissimo. La sua divisa bianca attirò subito l’attenzione: tutti sapevano che vestivano quella uniforme i soldati dell’Africa. L’alpino Rossetti, nato e cresciuto a Occhieppo Superiore, suscitò nei presenti sentimenti a dir poco contrastanti. Molti ebbero un moto di commozione di fronte a quel ragazzo magro e, con tutta evidenza, sofferente. Quasi tutti notarono anche la mano di legno che spuntava dalla manica della giubba. Altri provarono rabbia per ciò che quel soldatino candido, su cui spiccava la penna nera, non poteva non rappresentare: la sconfitta e la vergogna. E tutti tornarono con la mente all’inizio di marzo, quando i giornali, nazionali prima e locali poi, senza mezzi termini, scrissero della disfatta e del disonore. Abba Garima. O Adua, non fa differenza. Dopo l’Amba Alagi, 7 dicembre 1895, dopo il forte Macallè, 22 gennaio 1896, ci si aspettava un riscatto, una vendetta, una vittoria. E invece? Domenica 1° marzo 1896 il negus Menelik II aveva distrutto i reparti del generale Baratieri. L’orgoglio abissino aveva soffocato quello coloniale italiano. Un’umiliazione. Dolorosissima e pesantissima dal punto di vista delle perdite umane e materiali, ma più ancora sotto il profilo delle ambizioni espansionistiche del Regno d’Italia nel Corno d’Africa. L’alpino Rossetti c’era, ad Abba Garima, e lo aveva scritto in faccia, addosso. Era il simbolo, ferito e male in arnese, di tutto ciò che aveva vissuto ogni suddito di Umberto I in quei primi giorni di marzo. Il sopravvissuto fu circondato da tanti curiosi, poi fu salvato dai suoi compaesani, che si erano portati dietro la banda, e dal padre.
Il vecchio Rossetti, Pietro, era un veterano di cavalleria. Aveva combattuto le battaglie del Risorgimento, ma alla vista del figlio non rivide gli occhi dei suoi compagni d’arme: nel 1859 era andata meglio. Il giovane era segnato, sconfitto. La terra africana gli aveva tolto tutto. A partire dalla mano destra amputata. Il figlio non avrebbe potuto prendere il suo posto nelle caldaie dei Poma, non con quella menomazione. Il padre sapeva, ma trovarselo davanti così… Il padre sapeva perché aveva letto mille volte la lettera del capitano Mestrallet, che ad Abba Garima comandava la 2a Compagnia del 1° Battaglione Alpini d’Africa. Il breve scritto gli era stato recapitato a maggio inoltrato. Per più di due mesi nessuno aveva saputo quale sorte fosse toccata all’alpino. La madre era certa che fosse morto e si era ammalata. Poi, all’improvviso, le parole dell’ufficiale. “Sig. Rossetti. Per incarico avuto da suo figlio, trombettiere nella mia compagnia, le comunico ch’egli è salvo, ma ferito. Riportò delle ferite alle gambe ed alle braccia, che richiederanno una cura piuttosto lunga, ma spero che da quanto dissero i medici se la caverà bene e fra un paio di mesi (!!) potrà ritornare ad abbracciare lei e la sua famiglia. Mi è grato intanto poterle dire che lei può andare orgoglioso e superbo di suo figlio, giacchè si comportò valorosamente, tanto che ho creduto mio dovere di proporlo per la medaglia al valor militare. Spero che la mia proposta sarà accettata e che sul petto di suo figlio potrà brillare un giorno l'insegna del valore. Ho scritto io, perchè ancora non può adoperare il braccio destro”. Con queste ultime parole, il capitano Ernesto Mestrallet aveva mentito per pietà. Come il trombettiere si fosse salvato da quell’inferno di fuoco e di lance è difficile dirlo. Privo di sensi per le ferite ricevute, ritenuto morto e buttato tra i cadaveri, riprese conoscenza quando le donne abissine si aggiravano sul campo di battaglia allo scopo di evirare chi era ancora vivo. L’occhieppese dovette salvare quel poco che restava di lui difendendosi da una di quelle castratrici e riuscì a fuggire. Per venti giorni vagò cercando i reparti italiani. Allo stremo si salvò. La cancrena gli fece perdere la mano destra, mentre la sinistra restò paralizzata. Alla fine, l’alpino Rossetti era riuscito a rientrare sulle sue gambe, ma il fio pagato in Abissinia era stato altissimo. Di quel prode trombettiere i giornali nostrani scrissero a lungo. E con tanta enfasi oratoria da mettere in secondo piano il nome di battesimo. Dapprima si chiamò Virgilio, poi Eugenio, infine Egidio. Tale imprecisione denuncia bene la grande confusione che la catastrofe abissina provocò.
L’alpino Rossetti non fu l’unico “disperso in azione” biellese di quella tremenda giornata. Non pochi, infatti, furono quegli altri suoi commilitoni di cui non si seppe alcunché per settimane, per mesi. Le notizie arrivavano a Biella imprecise e confuse, distorte e contraddittorie. I sindaci non sapevano che cosa rispondere ai congiunti dei militari impegnati laggiù. Quel clima di incertezza e di sfiducia, che aveva portato alla fine del terzo governo Crispi, emergeva anche da quel caos angosciante di novità e di smentite. Alla fine di giugno non tutti i biellesi superstiti di Abba Garima erano tornati a casa. Era il caso di Federico Prina di Chiavazza, che prese parte alla nefasta battaglia d’Abba Garima e scampò miracolosamente alla morte. Il soldato Prina, che in realtà era di Biella, non era moribondo in qualche terribile ospedale da campo tropicale. Anzi, scriveva e con un certo piglio. Da “La Tribuna Biellese” del 5 luglio 1896: “Il bravo giovane, in una delle sue ultime lettere prega di dire agli amici (forse perchè ad altri vada la notizia...) che delle Taitù non se ne potrà mai trovare una che possa far vibrare il cuore d'un Italiano, tantopiù che a 50 metri di distanza si sente di esse un odore ributtante!!... Ahi! se il bravo Prina cascava nelle unghie di quelle Veneri color cioccolatte!”. In verità, c’era poco da ridere. Altri soldati biellesi erano riusciti a raggiungere le loro famiglie. Il sergente Alessandro Bello, del 74° Fanteria di stanza a Vercelli, era rimpatriato già alla fine di aprile. Del fante Pietro Besso, invece, compaesano e coscritto del Rossetti, si sapeva solo che era stato più che fortunato, che si era salvato ad Abba Garima e che stava bene, ma restava in Africa. A Camburzano a lungo si attesero nuove dello zappatore Mario Maffeo, mentre dell’alpino Giovanni Crida era noto che era ancora laggiù e non sull’Elvo. Ai primi di giugno, a Mongrando, si piansero i caduti. Alcuni reduci presero parte alla cerimonia. Cesare Fiore, che faceva parte della brigata Arimondi, ricordava di essere stato presente alla morte del suo generale che, ferito ad una spalla, si era suicidato davanti all’odiato generale Baratieri (la storiografia ufficiale tramanda, invece, una morte onorevole in combattimento… l’affermazione del mongrandese è da verificare!). Di Mongrando era anche Quinto Ganis, che era agli ordini del generale Dabormida, ma quel giorno non poté presenziare perché dopo la battaglia si era ammalato gravemente ed era convalescente. C’era, però, Pietro Chiorino di Borriana, che era stato anche lui sotto Dabormida in quella funesta domenica. Nelle settimane seguenti altri ebbero modo di raggiungere i villaggi aviti. Giacomo Pidello da Pollone, si era salvato come il Rossetti. Braccato dai nemici sopravvisse cibandosi d’erba e senza bere per vari giorni. A distanza di quattro mesi era ancora così debilitato da far disperare di una totale guarigione. L’alpino Rossetti, in quel pomeriggio del 24 ottobre, lontano dal 1° marzo 1896 e da Abba Garima, percorse via Umberto e in via Vescovado, sfilando in un assurdo trionfo, verso casa. La protesi che il dottor Invernizzi gli aveva modellato non gli impediva di sentire il dolore che mai lo avrebbe lasciato (specialmente quando cambiava il tempo, diceva a chi gli chiedeva). La solita “Tribuna Biellese” si chiedeva, con tanta retorica, ma con saggezza: “Chissà che cosa deve aver sentito nel cuore il povero giovane, passando per le vie imbandierate, egli che - per il volere cieco del destino e per la pazzia di governanti più ciechi ancora - s’avvicinava al paese natale, sentendo che d’ora innanzi la sua vita sarà spezzata, sarà annientato il corso della sua balda gioventù!”. Il fatto è che le guerre, anche quelle di oggi, anche quelle molto vicine, le dichiarano quelli che non le combattono. E, forse, le guerre le vincono gli stati, ma gli uomini le perdono sempre, tutte.